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Mario Benedetto: non basta raggiungere l’obiettivo, bisogna lasciare un segno!

“Le persone chiedono la libertà di parola come una compensazione per la libertà di pensiero, che usano di rado”.
È di Søren Kierkegaard questa frase che Mario Benedetto ci offre come spunto di riflessione sul lavoro e sulla “cultura” con cui lo si approccia. Libertà non solo di parola, dunque, ma di pensiero. Fondamentale, come comprensibile, soprattutto per chi di scrittura, giornalismo e comunicazione ha fatto la sua di dimensione di lavoro e di vita. Proprio come Mario Benedetto, giovane professionista nato a Firenze nel 1983, ma con un curriculum già fitto di esperienze ed attività significative.

Giornalista professionista, Mario Benedetto è infatti oggi tra i più giovani dirigenti della comunicazione. Ricopre attualmente il ruolo di Direttore Comunicazione di Confagricoltura, veste in cui è stato coinvolto nelle attività dell’Esposizione Universale 2015 di Milano.

Il suo profilo è caratterizzato da un percorso manageriale solido e da un’esperienza editoriale, giornalistica che va dalle attività autorali alla conduzione radiofonica – “Generazione Nova” è il titolo del programma in diretta, che ha ideato e condotto su Rai Radio Uno – fino al recente contributo alla scrittura di “Don Matteo”, nota serie di successo della Rai, dove Mario ha lavorato come collaboratore ai testi ed autore.

Ricopre incarichi di docenza e formazione alla Business School della Luiss Guido Carli. Qui si è laureato in Comunicazione politica, economica ed istituzionale e dalla sua prima tesi ha preso spunto il suo libro d’esordio “L’Italia di K”, dedicato al pensiero di Francesco Cossiga ed agli incontri avuti con il Presidente “picconatore”.
“Fenomenologia della segretaria” è invece il titolo della sua ultima pubblicazione.

Scrive per “LinC”, magazine edito dal Gruppo Manpower ed Rcs. Cura il blog “GenerAzioni” su TgCom24.it ed è presenza regolare nei programmi d’infotainment di Mediaset.

È membro di The Aspen Institute.

Ha sviluppato un legame particolare con diverse realtà del suo Paese avendo vissuto, per la professione del padre Generale dei Carabinieri, in molte città d’Italia. A ognuna di esse conducono le sue passioni: sport da combattimento, filosofia, recitazione, fotografia e la sua seconda lingua, lo spagnolo.

D. Chi è un innovatore per te? Perché?
R. L’innovatore, vero, è colui che infrange le “regole”. E facendolo produce valore.

D. Qual è l’innovazione che cambierà il mondo nei prossimi anni?
R. Se parliamo esattamente dell’innovazione che dovrà cambiare il mondo, immagino sarà tanto rivoluzionaria da poterla credere, oggi, persino difficilmente intuibile. Per quel che riguarda il nostro lavoro, guarderei alla moltiplicazione ed alla trasformazione dei “palcoscenici”, reali e virtuali, sui quali comunichiamo. Qui si giocherà una nuova importante partita. Non solo sul piano operativo ma, forse ancor più, valoriale. Vedo infatti sviluppo tecnologico ed innovazione legati a doppio filo e fortemente impattanti sul tasso di libertà nell’ambito del quale possiamo e potremo muoverci. Innovazioni che trasformeranno non solo linguaggi ma, come hanno già fatto, mercato e processi. Editoriali e non solo.

D. Qual è il ruolo di un leader in un’organizzazione?
R. Un leader è colui che crea, “accompagna” modelli, dei quali non faccia eccessivamente avvertire il peso dell’aspetto “normativo”. Colui che è capace di sovrintendere ai processi che essi originano, di coordinare, ma non (solo) accentrare. Colui che chiede rispetto ma non obbedienza, che governa ma non ordina.
Colui che è capace di far originare ogni azione non da mera indicazione o richiesta ma dalla motivazione.
Colui che parla e sa ascoltare, guida e si lascia guidare, nella misura in cui la competenza ed il contributo dei suoi collaboratori conducano al successo della sua azione.
Quindi il requisito, a mio giudizio dirimente, che ci rivela la presenza di un leader piuttosto che di un potenziale portatore d’interessi o di un semplice impreparato, è il seguente: il leader è colui che non accentra. Che governa ma delega.
Se così non fosse, saremmo in presenza di un grave deficit gestionale e soprattutto culturale. O di logiche di altra natura.

D. Una persona che ha lasciato il segno nella tua vita?
R. Se permetti avrei una terna che terrei a citare.
Pier Luigi Celli. Non semplicemente lui, ma il rapporto con lui mi ha fatto intanto capire da giovanissimo “come si maneggia il mondo” (dal titolo di un suo libro pubblicato ormai da tempo, cui ho contribuito) ma anche e soprattutto il valore della diversità.
Giovanni Lo Storto. Un incontro con lui, di ormai anni fa, mi ha permesso di stralciare il “velo di Maya”. Così come in realtà, in varia misura, ogni successivo confronto fino a quelli di oggi.
Andrea Delogu. Manager-filosofo, in cui riconosco i valori di quella “sarditudine” che da sempre è richiamo appassionato per la mia attenzione, il rapporto con il quale mi ha arricchito e mi arricchisce tuttora professionalmente, umanamente. Non solo in termini di semplici nozioni, argomenti o iniziative, ma di visione, appunto, nel lavoro e nella vita.

D. La tua più grande paura/la tua più grande speranza?
R. La mia paura è che il lavoro del futuro possa allontanarsi da quello che ho conosciuto ai tempi dello studio e dei primi anni di lavoro, i cui principi mi hanno guidato nella scelta. La più grandi speranze sono due: che questo non accada. E che la libertà possa affermarsi come “il” valore principale d’ispirazione per chi appartiene al nostro ambito professionale.

D. Il tuo progetto di lavoro attuale e quello futuro.
R. Il mio progetto di lavoro, oltre ad essere ovviamente finalizzato al miglior raggiungimento di ogni obiettivo prefissato, è molto concentrato su un passaggio ben preciso: realizzare tutto ciò, tenendo presente come macro-obiettivo l’upgrade “culturale” in termini di principi e mezzi del nostro mestiere. Un aspetto non secondario per la reale conoscenza e l’osmosi, la sintonia della nostra attività con la mission ed i valori delle realtà professionali e del tessuto sociale su cui incide. La valorizzazione del nostro lavoro è fondamentale per la richiesta di accountability che, in questo come in altri ambiti, va opportunamente tenuta presente.
Per il futuro mi aspetto che proprio questo modo di lavorare, questo approccio, questa cultura, possano rappresentare linee guida per me, per i professionisti con cui condivido la dimensione lavorativa e per tutti coloro che vorranno sposare questa “sfida”, dalle figure più apicali alle nuove generazioni, nella quali dobbiamo riporre le giuste, cruciali aspettative. Partendo dal garantire un qualcosa di necessario, che si doppia nel momento in cui dalla sola teoria si passa, necessariamente, alla pratica: modelli ed esempi. Esempi che si fanno appunto tali una volta adottati e rispettati, nella pratica, in prima persona.

D. La cosa che più ti fa emozionare e quella che ti fa più arrabbiare
R. La cosa che mi fa più emozionare è raggiungere un obiettivo esattamente attraverso il processo sopra descritto, attraverso un processo che non solo “arrivi” a segno, ma “lasci” un segno.
Mi farebbe arrabbiare invece muovere i passi in un perimetro del quale non avessi scelto io i confini, con il necessario margine di “tolleranza”. Fa parte della cultura di cui parlavo sopra: mentre il lavoro di un ingegnere meccanico può essere commentato da una persona che abbia un bagaglio equivalente o almeno affine di competenze tecniche, riconosciute come tali, la comunicazione, dal giornalismo alle sue declinazioni aziendali o istituzionali, spesso viene percepita come un tavolo del bar cui chiunque può sedersi per dire la sua in assenza, apparentemente, di tecnicismi che fungano da “filtro all’ingresso”. Un grande misunderstanding, alla base dell’inefficacia dell’azione che risulti essere il prodotto di questa (non) cultura. Ma lavoriamo anche perché ciò non accada. A patto che, nel rispetto dell’ “operatività” quotidiana, ricordiamo sempre l’ampio respiro della portata culturale della nostra azione.

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