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Barbara Carfagna: Il Cyber sta cambiando per sempre la Politica

“Io ero quella che vedeva il passato e quelle che vedono il passato non pagano mai. Vedevo anche il futuro e quelle invece pagano un prezzo elevato”. Roberto Bolano

Barbara Carfagna, violinista in una prima vita, inviata e anchorwoman per Mixer e tg1 in una seconda, ha fatto una terza capriola otto anni fa, quando ha lasciato le news per buttarsi a capofitto negli approfondimenti e nel complesso mondo della filosofia digitale. Innovazione, start up, 4.0 e cybersecurity. Temi che in Televisione, su Raiuno, dove realizza reportages serali per il tg1 e cura la rubrica “infosfera”, non sono semplici. Ha dovuto innovare la formula del racconto, creando immagini e montaggio per una realtà immateriale pressoché sconosciuta e all’inizio poco amata dagli italiani.
Ha tenuto e tiene corsi di formazione alla Link University; per la scuola di Telecomunicazioni delle Forze Armate; per aziende del settore ICT come Vodafone e Cisco. E’ relatrice in numerosi convegni in particolare su Cybersecurity e Startup in Italia e all’estero. Collabora con Il Foglio, Formiche, Panorama, Italiana.

D. Qual è l’innovazione che cambierà il mondo nei prossimi anni?

R. L’uomo connesso. La mente modificata dall’interazione con il computer sta ridisegnando l’essere umano. Scienza e tecnologia cambieranno il corpo, i sensi, il sociale, l’economia e soprattutto il politico. Per entrare nell’Era di internet bisogna girare letteralmente il cervello. Abbandonare le categorie e i valori a cui secoli di storia ci hanno abituati e accettare di diventare altro. Parte di un’identità “connettiva”, come dice il sociologo De Kerkhove, insieme con gli altri umani e con le macchine. Siamo tutti sulla stessa barca, molto più di prima, che ci piaccia o no.

D. Il tuo progetto di lavoro attuale e quello futuro

R. Io, appunto, ho già cambiato in parte la mia mente. Ho smesso di investigare il passato. Quando mi occupavo di giudiziaria per decenni ho messo l’attenzione di un’archeologa nel ricomporre i puzzle di fatti accaduti chissà quanti anni prima. Per buttarmi a capofitto nello straordinario e tumultuoso passaggio di Era che stiamo vivendo ho ripreso a studiare, ho cambiato mentalità e ho cominciato a investigare il futuro come un rabdomante che al posto della bacchetta usa la filosofia, inventandomi una chiave di racconto della complessità per orari pubblico e spazi diversi della Rai. Ora vorrei che questo stile, che ha ottenuto risultati anche in termini di ascolto, trovasse uno spazio autonomo. Penso a un programma mio.

D. Chi è un innovatore per te?

R. Solo chi sa abbandonare le categorie del passato può creare il futuro. In questi anni ho viaggiato moltissimo e incontrato persone straordinarie: startupper, filosofi, accademici, ingegneri, scienziati, contadini digitali e antropologi dai 16 ai novant’anni.
Giovanissimi e ultrasettantenni sono gli innovatori migliori. Gli ultimi hanno vissuto le guerre del secolo scorso e sanno che si può ricominciare mille volte. Non hanno paura e sanno ridimensionare e relativizzare gli eventi. Per questo trovano soluzioni molto più rapidamente delle generazioni post 68.

D. Una persona che ha lasciato il segno nella tua vita?

R. Un novantenne: Shimon Peres. Più di dieci anni fa, in un lunghissimo incontro a Tel Aviv. Mi spiegò che internet avrebbe reso la ricerca, la scienza e la tecnologia più importanti della politica. E che era più importante conoscere e essere avanti che essere in alto nella piramide del potere. Perché il web avrebbe cambiato anche quella in maniera radicale. Allora io pensavo ad internet quasi solo in termini di antiterrorismo, siti da guardare e mail da inviare. Non c’erano ancora socialnetwork e smartphone, né la mobilità che ha portato i cambiamenti finora più radicali, filosoficamente parlando. Due anni fa, in Israele, l’ho sentito ripetere le stesse parole.

D. La tua più grande paura e la più grande speranza.

R. La paura di vivere un nuovo Medioevo. La politica è in uno stato di totale disordine e imprevedibilità in tutto il mondo connesso. Quando è così, ci insegna la storia, l’irrazionale, il pensiero magico e il fanatismo religioso prendono il sopravvento; e lo fanno in modo violento. Per ora, il rapporto tra politica e digitale si muove ancora nelle vecchie logiche: è ridotto alla ricerca del consenso da parte dei politici nei socialnetwork. Il senso di appartenenza quasi tribale creato dai gruppi Whatsapp e Facebook in persone con gli stessi orientamenti genera un’influenza tale da superare le indicazioni dei partiti, rendendoli vecchi. Lo abbiamo visto con Trump, con Brexit; i politici, ahimé, sono disposti ad aggiustare il tiro inseguendo le emozioni degli utenti nei social. Facendo così accelerano la dissolvenza già in atto della politica con la P maiuscola. La speranza è che, passata questa fase, con internet si creerà una nuova politica. Se guardiamo le nazioni tecnologicamente più avanzate, dove tutti sono online, anzi “onlife” (per usare il termine di uno dei miei filosofi di riferimento, Luciano Floridi) e dove i dati dei cittadini sono incrociati con quelli degli oggetti (i famosi Big Data) vediamo l’alba della nuova politica. Lo hanno capito in Estonia, in Islanda, in Israele, a Singapore: realtà piccole e con difficoltà ambientali che ho visitato e studiato, dove è più semplice e soprattutto più urgente innovare.

D. Qual è il ruolo del leader in un’organizzazione?

R. Il leader del futuro non è un uomo che comanda ma un visionario capace di intuire la complessità a cui andiamo incontro nell’ epoca in cui i dati si moltiplicano in modo esponenziale. Elastico abbastanza da aggiustare il tiro e le alleanze di volta in volta man mano che si presentano le innovazioni e i cambiamenti repentini. Mantenendo la rotta senza rigidità. A Singapore il leader è un computer. Lì il Presidente governa assieme a un sistema più intelligente di Watson. E lo fa attraverso algoritmi governativi creati da un’apposita struttura: nella Città-Stato asiatica è appena nato il Govtech, il governo tecnologico. Una startup politica del Governo. Certamente in paesi più democratici e più vecchi come quelli europei il processo sarà molto più lento; sarà differente ma, se i dati continueranno a crescere in modo esponenziale, tutto quello che vediamo ora verrà spazzato via da nuovi sistemi e nuove piattaforme nel giro di un decennio. In Islanda Birgitta Jósondóttir, la leader del partito dei Pirati che ho intervistato recentemente, mi ha detto che secondo lei si può tornare a governare davvero una Nazione solo cercando di far uscire i cittadini dalle piattaforme di privati come Facebook e costruendone di proprie. Mi sembra un’operazione molto difficile, ma rende l’idea di come in tanti paesi ci sia chi sta già tentando altre strade.

D. La cosa che ti fa più emozionare e quella che ti fa più arrabbiare.

R. Nel giornalismo di questi anni mi fa arrabbiare l’impossibilità di verificare le notizie in tempo reale contrapposta alla pretesa del pubblico di sapere tutto, giusto e subito: sta erodendo la credibilità del mestiere. Trump negli Stati Uniti ha messo ko la categoria, tra post-verità e attacchi al servilismo dei gruppi editoriali.
Ci vorrebbe una sterzata etica. Anche nella creazione di algoritmi che sostituiscano quelli che ora ordinano le notizie seguendo criteri discutibili. Mi fa emozionare invece vedere come tutto può essere cambiato in un attimo. Il giornalista che raccoglie e organizza informazioni ha una responsabilità enorme ma anche un enorme potere. Guardiamo Greenwald, che ha pubblicato i documenti di Snowden; o il gruppo di professionisti dietro le rivelazioni dei Panama Papers: sono giornalisti che hanno cambiato la politica e anche la storia; hanno ribaltato governi e creato consapevolezza nei cittadini. Tutto usando la tecnologia. Certo è che per farlo c’è bisogno di ripensare le strutture e i ruoli; studiare molto più che nel passato confrontandosi con i colleghi invece di entrare in un clima competitivo tipico della professione. E questa è la cosa più difficile: ridimensionare l’ego smisurato tipico di ogni giornalista.

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